Nell’agosto del 1989, alcuni mesi prima dello storico referendum che mise fine alla dittatura militare in Cile durata sedici anni, intrapresi il lungo viaggio al ‘sud del mondo’ per andare a conoscere Eugenia Pirzio Biroli, l’unica cugina di mia madre.
Mia “zia” aveva quasi novantanni e viveva da sola in Patagonia, dove conduceva una vita fuori dal comune. Dal 1947, e cioè da quando aveva lasciato l’Italia dal porto di Genova su di un’immensa nave diretta a Valpairaiso, era tornata solo una volta e molto brevemente.
Le scarse informazioni non avevano fatto altro che aumentare la mia curiosità, non tanto in qualità di nipote, ma per l’idea che mi ero creata di questa donna, da anni sindaco di un comune lontano da tutto e da tutti, grande quasi come il Piemonte, la Lombardia ed il Trentino Alto Adige messi insieme. Volevo conoscere Eugenia prima che fosse troppo tardi. Sentivo il bisogno di ascoltare quello che lei aveva da dire sulla vita. Pensavo vagamente anche ad una sua biografia, insomma a qualcosa che potesse rendere omaggio a tutti coloro che seguono la propria vocazione, sopratutto se questa porta in mondi sconosciuti.
Una volta in Cile, mi accorsi che la semplice menzione di “Dona Eugenia” suscitava sconcertata ammirazione e dubbio rispetto: il personaggio era controverso, pieno di contraddizioni, e veniva spesso connesso a quello del Presidente Pinochet. Con tutte le iniziative che questa signora aveva portato a fondo, sfidando difficoltà di ogni genere, l’unica che sembrava darle fama veniva dalla sua passione per l’astrologia. Si parlava di lei come della ‘veggente’ di Pinochet. E alcuni osavano perfino suggerire che solo per questo, il ‘generale’ la teneva in palmo di mano. I più magnanimi la difendevano, insistendo che Pinochet la stimava anche per il suo impegno nei confronti di quella regione della Patagonia orientale—Puerto Cisnes—che senza di lei non sarebbe mai entrata negli annali della storia contemporanea del Cile. Altri la rispettavano e basta. Quelli invece che avevano avuto la fortuna di conoscerla personalmente ne parlavano con grande affetto, in modo quasi attonito, sorridendo increduli al pensiero di lei e della sua scelta di vita, così dura e isolata, in mezzo a gente poverissima. Si riferivano a lei come ad ‘un faro di luce nella notte’. Una cosa era certa: semplificare il personaggio definendola ‘fascista’ era facile anche per via del suo adorato padre—Generale d’Armata Alessandro Pirzio Biroli, fratello del mio nonno materno–considerato uno dei grandi militari al servizio di Mussolini. Ma il dilemma rimaneva. Molti si domandavano cosa mai avesse moss[1]o questa signora a mettersi prima al servizio disinteressato di Padre Hurtado e della Opera Don Guanella e poi del popolo di Puerto Cisnes, dando via quel poco che possedeva, riducendosi a vivere in una semplice casa di legno con lo stretto necessario e senza aiuto alcuno. La sua vita era un esempio di ‘Comunismo’ vissuto concretamente, non ideologicamente. Tutto questo e altro scoprii al mio arrivo a Santiago. Tanti pensieri mi frullavano per la testa, ed il fatto che la Patagonia fosse una regione mitica della terra, un luogo ai limiti del mondo, era un fatto per me scontato. Mi trovavo in Cile per Eugenia, non per la Patagonia. Ero arrivata nell’immensa Santiago senza conoscere nessuno. Non sapevo niente di Puerto Cisnes o e molto poco del Cile, solo il libro di Bruce Chatwin In Patagonia, che però non trattava la parte cilena dalla natura ricca di boschi, fiumi, montagne, laghi, cascate, vulcani, ghiacciai, bensì il grande territorio piatto delle pampas sconfinate dell’Argentina che vanno a morire nei mari più a sud del mondo. Tanti anni prima nel lontano 1973, arrivata da poco in Indonesia, in un data che ormai è entrata a far parte della grande storia dell’umanità—e cioè l’11 settembre– con l’orecchio ad una radiolina dalle batterie deboli, avevo sentito la BBC annunciare il famoso contestato suicidio di Allende ed il colpo di stato in Cile. Ero molto giovane allora e non sapevo niente di quel paese. Per anni poi, mi ero portata il ricordo di quel momento appresso. Era stato tenuto vivo nella memoria collettiva del mondo dal dolore di tutti i cileni che persero figli, fratelli, mariti e spose in un sacrificio umano en masse fatto per trasformare il Cile in una società basata sul consumo per il benessere di molti e l’alienazione di tanti altri, ispirata al modello occidentale delle otto nazioni che contano. Quel ricordo di quasi ventanni prima era adesso, a Santiago, più che mai presente. Come fare ad ignorare la politica e la storia nell’incontro con Eugenia? A questo pensavo quando tentai di comunicare con lei per annunciarle il mio arrivo. Ma non fu semplice. Puerto Cisnes aveva solo un telefono via radio, al municipio. Il numero era 1. Finalmente, dopo un’intera giornata di falsi tentativi, sentii con emozione la sua voce a distanza disturbata dalle onde sonore. Con energia mi parlò come se stesse riprendendo un discorso interrotto poco prima. “Qui non c’è niente,” la voce mi diceva. “Io non ho tempo per fare turismo.” L’accento della sua infanzia e gioventù romana era vivo ed io, in un lampo, non presi personalmente la sua reticenza nel darmi il benvenuto. Si era lasciata tutto alle spalle, non solo l’Italia da giovanissima, ma anche la capitale, Santiago, e la propria famiglia dopo aver cresciuto due figli. “Nel mezzo del cammin” della sua vita aveva lasciato tutto per dedicarsi ad una causa precisa, e non aveva certo tempo da perdere con una nipote apparsa dal nulla e della quale non sapeva niente. ‘Non ti devi occupare di me. Sono autosufficente, e non sono qui per turismo,” riuscii a rispondere. “Basta che mi indichi un posto dove stare, e poi a me stessa, penso io. Se mi puoi vedere qualche volta bene, sennò anche una sola volta. Non devi ospitarmi, non devi nutrirmi, non ti chiedo niente. Desidero solo conoscerti….” Ripenso adesso a questa poesia scritta da un poeta anonimo che trovai anni dopo tra le carte di Eugenia. Descrive molto bene l’avventura alla quale andavo incontro e che ancora non potevo nemmeno immaginare. Se ami il tuo paese, vieni in questa terra che ha bisogno di te. Pochi giorni dopo atterravo a Coyhaique, la capitale di Aysen, undicesima provincia del Cile. La regione faceva parte di un enorme territorio che va dal Pacifico fino all’ Atlantico con l’Antartide a sud. L’aereoporto si trovava nel mezzo di una valle incorniciata dalla cordigliera delle Ande nel punto in cui le montagne incominciavano a diminuire fino a scomparire del tutto, diventando pianure a vista d’occhio. Era mezzogiorno sotto un cielo limpido, senza nemmno l’accenno di una nuvola. Il sole, enorme, era quasi acceccante. La hall degli arrivi non era affollata e tutti i passeggeri sembravano essere lì per una ragione precisa. Infatti, pochi arrivavano fin qui in pieno inverno per puro piacere. Coyhaique era il centro amministrativo di una regione ricca di legname, minerali, allevamenti bovini e ovini, e pesca. Questa cittadina di frontiera, con il suo importante avanposto militare, doveva il suo ruolo strategico alla costruzione del Camino Austral che adesso collegava queste remote regioni meridionali al resto del paese. Il sud era densamente costellato di foreste, fiumi, precipizi, depositi glaciali, gigantesche cascate e migliaia di piccole isole e fiordi. Furono impiegati dodici anni–dal 1976 al 1988–per portare a termine questa gigantesca opera stradale per la quale lavorarono più di duemila persone. Alcuni vi morirono. La jeep regalata da Eugenia al municipio mi attendeva con al volante Victor Alvarado dal tipico sorriso pieno di calore cileno. Nel retro, una giovane donna chiaramente indiana, seduta ripiegata su se stessa in mezzo ad ogni sorta di rifornimenti, piante e sacchi di farina, mi osservava timidamente in silenzio. Era una mapuche auracana venuta all’ospedale di Coyhaique per un controllo, e ora stava sta ritornando a casa. Il piccolo ospedale di Puerto Cisnes non era ancora dotato di una macchina a raggi X. Più tardi, sarei venuta a sapere che l’ambasciata italiana aveva preannunciato l’arrivo di un’autombulanza FIAT promessa da Susanna Agnelli in una recente visita in Cile. Mentre lasciavamo Coyaique alle spalle, un arcobaleno immenso dai colori perfettamente delineati formò un arco grande come tutta l’immensità del cielo. Secondo Alvarado, gli arcobaleni d’inverno andavano e venivano ogni giorno, tra un acquazzone e l’altro, e nessuno ci faceva caso. Al decimo chilometro dalla città, iniziava un altro tratto del famoso Camino Austral del quale la gente parlava come di un’autostrada a più corsie. Invece, viaggiavamo su di una strada sterrata, bianca, tracciata nella vastità del paesaggio. Un panorama grandioso di montagne, colline, e valli si susseguiva. Ogni tanto incrociavamo un camion appesantito dal legname, oppure un cavaliere solitario sul suo cavallo. Alvarado alzava la mano in risposta al saluto di questi pochi itineranti che viaggiavano in direzione opposta. Avevo l’impressione di attraversare un territorio senza fine, privato e vergine, scoperto di recente. Ora cominciavo a capire come mai chi viveva in mezzo a spazi sconfinati, non poteva più abitare in nessun altro luogo al mondo. Aveva un bisogno quasi fisico di aria pura e orrizzonti illimitati. E più la jeep avanzava, più avevo la sensazione di toccare con mano ‘il mito’ della Paragonia. Ero ormai convinta che se un essere umano arrivava a soppravvivere in quella terra, poteva senz’altro costruirsi una vita decente ed anche riuscire ad accumulare ricchezze. Come tutti i luoghi al confine del mondo, si poteva facilmente anche intuire come mai la Patagonia fosse diventata col tempo il rifugio ideale per coloro che fuggivano la legge o rifiutavano i valori della la società borghese. La giovane donna mapuche si era addormentata. Attraverso i quadrati di plastica opaca del finestrino della jeep, guardavo la neve sciogliersi ai lati della strada fino a quando apparve un insediamento di case, chiamato Manuales. E davanti ad una piccola costruzione di legno uscita da un Western di Sergio Leone, Alvarado decise di fermarsi. El Bienvenido Residencial, scritto in rosso su di un’insegna bianca, ci accolse. L’unico posto che offriva cibo e alloggio per molti chilometri era gestito da un’anziana signora e le sue due figlie. I mariti, seduti ad un tavolo, passavano quasi per viaggiatori. Discutevano con gli ospiti del più e del meno, bevevano birra, ed ogni tanto sonnecchiavano. Un giovane con il cappello a busta di soldato semplice posava formalmente tra i genitori in una fotografia a colori pesantamente ritoccata, appesa come unica interferenza sul muro celeste della sala da pranzo. Una stufa a gas bruciava in un angolo. Il pranzo arrivò: una grossa ciotola fumante di stufato di agnello. Dopo 170 chilometri da Manuales, Alvarado prese a sinistra in direzione di Puerto Cisnes. Fino a poco tempo prima, si poteva raggiungere Cisnes solo in barca o a cavallo. Eugenia aveva mosso mare e monti per ottenere questi 30 chilometri di strada che si fermava a Cisnes, senza la quale il ‘porto del cigno’ sarebbe rimasto per sempre tagliato fuori dal mondo. Stava cadendo la notte. Le prime luci di Cisnes apparvero in lontananza. Pioveva. Cisnes era conosciuta appunto anche per la sua pioggia. Mentre solo a 15 chilometri a nord, nel paesino di Puyuhuapi, fondato negli anni venti da emigranti tedeschi, il clima era asciutto, imprevedibile come tante altre cose nella regione. A Cisnes, invece, gli stivali di gomma fungevano da scarpe. Alvarado puntava col dito a sinistra, verso la baia, ma io riuscivo a distinguere solo pioggia. Cadeva leggera nel buio. Improvvisamente i nostri fari illuminarono una piccola insegna posta al bordo della strada: “Bienvenido a Puerto Cisnes, poblacion 3.400 hbts“. Le strade era desterte e solo tenui luci stradali illuminavano il nostro passaggio. Erano le otto di sera, ma Cisnes si era già ritirata per la notte. Si attraversò un piccolo ponte per poi fermarsi in quella che sembrava una sperduta via di campagna. Mi guardai attorno con sorpresa. Non vedevo niente, nessun segno di vita. Alvarado uscì di macchina, accese la pila, e aiutò la donna mapuche ad alzarsi dal retro della jeep. Come per incanto, la donna scomparì nelle tenebre. Alvarado mi fece segno di seguirlo e dopo poco mi trovai di fronte ad un piccolo cancello di legno semi-nascosto dai cespugli. Al di là, un sentiero di pietra a zig-zag attraversava un giardino che nel buio assomigliava ad una foresta incantata invasa dal profumo di eucalipto. La casa di Eugenia apparse tutta avvolta nella note di un’aria di un’opera che sembrava familiare senza esserlo. Una sola finestra era accesa al pianterreno. Come il cancello, anche la porta d’ingresso si lascia aprire. Seguì Alvarado dentro la casa. Appesi sulla prima parete incontro, vi erano dei poncho, uno o due impermeabili e dei cappelli di paglia. In terra, ben allineate vidi solo galosce e stivali di gomma e, appoggiati in un angolo, vari bastoni da passeggio. “Entrate! Entrate!”una voce femminile decisa arrivò dall’interno. Entrai timidamente, e mi trovai di fronte ad una vecchia signora, accovacciata su di un divano, tra cuscini variopinti, con una coperta di lana sulle gambe. Indossava un pesante cardigan di lana grezza fatto a mano, ed i suoi capelli erano raccolti dentro un turbante di lana nera. Dal suo collo pendevano come amuleti due o tre collane infilate con bacche e semi. Un fuoco scoppiettante illuminava la sua persona. Le pareti della stanza erano tappezzate di libri come una biblioteca in un racconto di Hans Christian Andersen. La signora chiuse distrattamenrte il piccolo libro che stava leggendo—Breve storia del tempo di Stephen Hawkin–e mi guardò come se già facessi parte della sua vita. “Amo molto l’opera”, disse in un italiano spagnoleggiante. “Questo è l’Elisir d’amore… il tenore è morto da tanti anni. Era mio marito. Aveva una voce bellissima “. Eugenia poi chiese ad Alvarado di mostrarmi la stanza che aveva preparato per me. ‘Starai qui con me’, aggiunse senza lasciare spazio per altre alternative. ‘Hai mai tagliato la legna?’ Mi chiese poi in modo totalmente normale. ‘Certo’, risposi decisa, mentendo per non deluderla subito, senza nemmeno pensare alle implicazioni di tale ardua impresa. ‘Il fuoco si accende all’alba’, Eugenia mi spiegò poi, indicandomi una piccola porta che dalla piccola cucina usciva sul retro della casa. Alvarado mi accompagnò fuori, illuminando con la pila un mucchio portentoso di ceppi sotto una tettoia. L’accetta era buttata da una parte, pronta a riempire la sua funzione. E fu così che avvenne il mio primo incontro con la zia Eugenia. Mi trovai subito proiettata in un rapporto da conquistare con volontà e umorismo come tutte le situazioni che contano nella vita. La vecchia signora aveva deciso di mettermi alla prova per una ragione tutta sua, della quale divenni subito complice. L’iniziazione durò tre giorni. Dopodiché, il mondo di Eugenia e la sua vita interiore si aprirono come le pagine di uno dei suoi libri come per esempio Il mistero dell’Atlantide che lei teneva fisso sul comodino. Tanti altri giorni passarono. La data della mia partenza non fu mai menzionata, né da lei, né da me. Eravamo agli inizi di agosto e cioè le giornate si susseguirono, una mai uguale all’altra. Ogni sera, dopo il municipio, la vecchia signora si sprofondava nel suo divano dove leggeva, ascoltando la voce del marito alzarsi da un vecchio registratore e spargersi dapertutto nella casa. Sebbene il canto fosse stato per lui soltanto una passione, Genaro Godoy Ariaza, rinomato professore di filologia antica all’università, si era esibito fino all’ultimo at Teatro Municipal de Santiago. All’alba era un’altra cosa. Eugenia scendeva molto prima di me, preparava il fuoco, e poi s’immergeva corpo ed anima nei libri di astrologia. La sua collezione di letteratura occulta andava dall’I Ching cinese alle rune nordiche, alle rivelazioni mistiche sufi e tibetane, alla mitologia indiana del nord e centro America, a Pitagora, alle osservazioni stellari di Galileo, ai tarocchi di fine Medioevo, perfino ai diagrammi astrologici degli indiani mapuche del Cile che lei teneva in grande considerazione. Alle cinque del mattino era già al tavolino, nel suo piccolo studio, vicino alla cucina. In quelle ore sacre, ascoltava prima di tutto le notizie della BBC dalla sua vecchia radio a onde corte. Solo dopo era pronta a consultare la posizione dei pianeti in relazione all’attuale situazione politica del suo paese adottivo e poi in relazione al mondo in generale. “L’astrologia non ha niente a che fare con il futuro” affermava con impazienza. “E’ una vera scienza nata da secoli di attenta osservazione della natura. L’essere umano, essendo formato sopratutto d’acqua, è soggetto come ogni altra cosa all’attrazione gravitazionale della luna che influenza gli oceani, l’umore delle persone, e molte altre cose. Attraverso il movimento dei pianeti, può scoprire qualcosa du sé stesso. Solo a questo serve l’astrologia, a completare il quadro della propria personalità. Se per esempio, una persona prende coscienza del proprio carattere impulsivo può anche forse riuscire a dominarlo. La passione per l’astrologia aveva seguito Eugenia fin dall’infanzia. A coloro che le chievedano perchè di tutti i posti al mondo avesse scelto proprio Puerto Cisnes, lei rispondeva che non aveva potuto fare altrimenti. Quella lontana regione della Patagonia orientale rappresentava semplicemente il luogo ideale per creare una scuola per bambini privi di famiglia come pietra miliare per una futura città. Sembrava che Eugenia prendesse in prestito furtivamente quelle ore mattutine alla sua vita pubblica che costituiva un lavoro a tempo pieno: il giorno in municipio o in giro per il comune. L’alba e la notte, invece, erano per nuove idee e pensieri che sempre l’accompagnavano anche nel sonno. Tutti in paese sapevano che la porta del suo ufficio e della sua casa erano sempre aperte. Da lei uomini, donne e bambini trovavano consiglio, forza morale, notizie dal mondo, e persino sostegno finanziario in emergenza. Poi ci c’erano quelli che la visitavano nella speranza di una partita di scacchi, gioco che lei aveva introdotto nella regione. A parte il giovanissimo Francisco, suo avversario preferito, vi era anche Jorge Duamante, un piccolo uomo di mezz’età. Aveva 15 anni quando arrivò con lei a Puerto Cisnes da Santiago. Partecipò alla costruzione della prima scuola agricola e poi rimase nel paese senza mai far ritorno nella capitale. “Sua moglie mapuche era nel jeep con te. Hanno tre figli”. Eugenia parlava di lui con affetto. “E’ un bravissimo falegname. Mi è sempre stato accanto e sempre ha capito cosa sognavo per Cisnes. Per esempio, mi ha aiutato a progettare il municipio e la biblioteca municipale, segando ogni pezzo di legno con le sue mani. Jorge ha dato tutto il suo lavoro per Cisnes. Ha perfino intagliato le figure della Giustizia e Temperanza sul frontone della biblioteca! E’ un vero artista ed anche un campione di scacchi”. Come Duamante, tutti gli abitanti di Cisnes avevano una storia alle spalle. Ogni sera, nella calma della sua casa, Eugenia mi raccontava i misteri e le saghe umane che la circondavano. Fra le tante storie, vi era la fiaba d’amore di Pedro Gomez, il guardiano del faro—nativo dell’isola di Chiloè, a nord di Aysen. I Ciloti avevano la fama di essere imprevedibili, eccentrici, gelosi, romantici, e fisicamente molto attraenti. Erano per così dire gli “irlandesi” del Cile e la loro isola era pervasa di leggende e misteri. Molti e molti anni fa, questo tipico Cilota si innamorò di una bella ragazzina di 14 anni, la figlia del console italiano a Santiago. Capitò per caso a Cisnes su una piccola nave da crociera con i suoi genitori, un fratello piccolo, ed una comitiva di turisti. Gli inaspettati visitatori scesero a terra, esplorarono il luogo e poi ritornarono a bordo. A quel tempo Cisnes era un piccolo villaggio con poche casette raggruppate attorno alla scuola agricola costruita da poco. Non vi erano istituzioni, nemmeno un poliziotto. C’era solo Eugenia con una trentina di ragazzi portati da Santiago. E con lei, c’era Padre Francisco Bellotti dell’Opera Don Guanella, alcuni pescatori chiloti, qualche indiano mapuche, e alcuni cavalli. Una volta a bordo, il console e sua moglie si accorsero che la figlia mancava. La chiamarono, guardarono dapertutto, coinvolsero naturalmente Eugenia che sguinzagliò i suoi ragazzi e altri alla ricerca della giovane. Invano. Dopo varie ore di attesa, dovendo tener conto degli altri passeggeri e non potendo più impedire la continuazione del viaggio, il console decise di riaccompagnare moglie e figlio a Santiago per fare poi ritorno a Cisnes con qualsiasi mezzo. Tutto questo avrebbe preso minimo due settimane. Eugenia cercò di tranquillizzare la coppia, insistendo che la loro figlia non poteva essere lontana. Non avevano niente da temere. Eugenia l’avrebbe trovata e se ne sarebbe occupata come di una figlia. E così la nave con i due disperati genitori salpò. La ricerca continuò per due giorni e due notti finché una mattina presto un cilota di 18 anni di nome Pedro che Eugenia conosceva, apparve alla sua porta tenendo per mano la figlia del console. I due giovani avevano un’espressione radiosa. Pedro era visibilmente innamorato e non poteva distogliere lo sguardo dalla ragazza che, silenziosa e timida, aveva anche lei un’espressione non di questo mondo. Senza tanti preamboli, egli disse che si volevano sposare subito e che avevano bisogno di un prete. Si sentivano già marito e moglie ma desideravano essere accettati come tali dalla comunità. ‘Tutto è possibile’, rispose Eugenia, rivolta alla giovane, ‘ma prima dobbiamo aspettare l’arrivo di tuo padre. Nel frattempo verrai a vivere in casa con me’. E così fu. Il console finalmente tornò e con grande preoccupazione scoprì l’accaduto. Ma non riusci in nessun modo a convincere sua figlia a separarsi dal ragazzo. Ci provò in tutte le maniere. Non ci fu niente da fare. I giorni passavano senza la minima speranza di soluzione. La quattordicenne era irremovibile. Non sapendo più che pesci prendere, egli decise di portarla via con la forza. In gran segreto organizzò un vero e proprio rapimento. Ma quando vennero al dunque, la figlia si era di nuovo dileguata nella foresta. Non rimase al padre che accettare la situazione, tornarsene a Santiago, e trovare la forza di portare a casa la triste novella. L’indomani dalla partenza del console, gli innamorati uscirono alla scoperto, ed Eugenia si occupò subito del loro matrimonio. I due sposi andarono a vivere nel faro, a due chilometri a piedi fuori Cisnes. Il faro era stato appena costruito e Pedro ne divenne il guardiano. Egli era così innamorato di sua moglie, così possessivo e geloso che non permise a nessuno di assisterla durante la nascita dei figli. Volle sempre fare tutto da solo, riufiutando perfino l’aiuto della levatrice. Questo per non esporre il corpo di sua moglie a nessuno. La storia del loro amore finì una notte. La donna stava dando alla luce il quinto figlio, quando d’improvviso ebbe un’emorragia. Pedro fu incapace di affrontare la situazione. Il bambino nacque sano ma la madre morì. E dal dolore, Pedro si ammutolì per il resto della vita. Ora, appena settantenne, egli sembrava vecchissimo. Mentre i figli avevano tutti fatto per così dire fortuna come imprenditori e proprietari terrieri, ed erano anche padroni dell’unico piccolo ‘supermercato’ di Cisnes, Pedro viveva come unpovero eremita ancora nel faro. Osservava ogni giorno l’orrizzonte del fiordo dove le navi apparivano adesso con maggior frequenza. Si faceva vedere di rado in paese e non parlava mai con nessuno. Queste storie umane erano la migliore introduzione a Puerto Cisnes ed Eugenia era fonte inesauribile di avventure di vita. Con i suoi racconti, mi faceva viaggiare in una dimensione reale come la violenza del clima e la grandiosita del paesaggio, ma anche surreale. Tutto ciò che avveniva intorno a lei sembrava possibile solo laggiù ed in nessuna altra parte del mondo. Eugenia viveva come in bilico tra il reale ed il surreale, tra il suo spiccato senso pratico ed il suo sconfinato idealismo. In realtà non passava giorno senza che qualcosa d’insolito accadesse. Fatti brutti come un pescatore che affogava misteriosamente in una corrente imprevista; fatti belli come la nascita prematura di due gemelli, in una barchetta di notte, durante la lunga traversata per raggiungere l’ospedale di Cisnes, ed il miracolo della loro sopravvivenza; fatti strani come i filmetti pornografici trovati in una chiatta da pesca abbandonata a cinque chilometri dal centro abitato. Le numerose insenature dell’enorme baia erano punti segreti d’incontro per il commercio clandestino che arrivava fin lì da Puerto Montt, Valdivia, e ancora più a nord, dai lontani porti di Conception e Valparaiso. Il traffico clandestino consisteva sopratutto nel commercio dello squisito abalone, la cui pesca era proibita, dei soliti spiriti e sigarette, perfino arnesi di lavoro. La polizia di Puerto Cisnes era perennemente impegnata in strane indagini alle quali, purtroppo, Eugenia doveva partecipare suo malgrado. Si diceva, per esempio, che lei aveva un fiuto speciale per scoprire la verità. La presenza del vecchio sindaco sembrava insomma necessaria nella risoluzione di ogni tragedia, nella celebrazione di ogni gioia, e in tutte le vicende misteriose che accadevano nel comune. Eugenia era puro ottimismo. Pragmatica e idealista, coraggiosa, avventurosa e avventuriera. I suoi orrizzonti si estendavano ben oltre i limiti del fiordo come se questi fossero senza confini. Secondo lei, tutto era possibile. Parlava di Puerto Cisnes come di una futura grande metropoli lanciata verso un destino incontaminato. Dietro alla sua imponente personalità meno femminile col passare degli anni, Eugenia era piena di delicata poesia. Aveva perfino fatto costruire un rifugio in cima ad una collina e l’aveva chiamato ‘rifugio di Monsalvat’. La gente di Cisnes ci andava per le feste, cucinava l’asado al palo, e ballava freneticamente la queca attorno al fuoco, suonando e cantando fino a tarda notte. Come molti abitanti della Patagonia, Eugenia anche lei non sapeva dove stesse di casa ‘la paura’. Era come immune da questo sentimento che invece sembra ora aver coinvolto tante persone sulla terra: paura del diverso, paura del prossimo, diffidenza, paura del cibo, paura di volare, paura di morire come di vivere. Nonostante la tarda età e le multeplici difficoltà anche economiche, lei continuava imperterrita a organizzare e dare ispirazione a chi gli stava vicino. Era al corrente di tutto ciò succedeva d’importante nel mondo, dai cambiamenti climatici ad altre allarmanti notizie sul pianeta, dai grandi problemi ai più piccoli. I suoi idoli erano Ghandi, Mandela, l’esploratore Pietro di Brazzà, fondatore del Congo- Brazzaville, Socrate, il grande poeta persiano Havez, San Francesco, e il nostro Dante, fino a risalire ad Ermete Trismegisto. Aveva letto centinaia e centinaia di libri dal Baghava Gita ad appunto la Breve storia del tempo che in quei giorni occupava i suoi pensieri. Accanto al suo letto, appesa alla parete in una bella cornice vi era una grande fotografia di Jorge Alessandri, l’uomo che lei stimava forse quanto suo padre. ‘E’ stato un grande presidente,’ non si stancava di ripetere. ‘Grazie a lui, Puerto Cisnes diventò ‘Comune.’ Oltre if fondi per la prima scuola agricola, ci dette tante cose, la luce elettrica, l’aereoporto, insomma gli dobbiamo la vita’. Eugenia era stata sindaco sotto quattro diversi presidenti, e aveva qualcosa di buono da dire di tutti, tranne di Allende. ‘Fu l’unico a non darci niente, a non sapere nemmeno che esistevamo. Non ebbe proprio il tempo di occuparsi di questa parte del paese’. Era evidente che giudicava presidenti e politici solo da quello che avevano fatto o non fatto per il Comune di Puerto Cisnes. ‘Il General Pinochet ci ha regalato la strada, togliendoci per sempre dall’isolamento. Anche lui dobbiamo ringraziare. Qui non abbiamo vissuto di prima persona gli orrori della capitale, i grandi sbagli, e le tragedie. Vivevamo nella povertà, lottavamo per la sopravvivenza e ci occupavamo di ragazzini abbandonati, cercando di dar loro un futuro.’ Ascoltavo in silenzio. Eugenia diceva sempre quello che pensava. Ma adesso c’era tanto che doveva per forza rimanere non detto come se certi argomenti facessero troppo male e portassero forse sfortuna. ‘Ognuno di noi ha il proprio destino. Il mio è arrivato fin qui. E qui si fermerà’. Eugenia mi disse la sera prima della mia partenza. Due mesi erano passati dal nostro primo incontro e l’inverno si era un po’ calmato. Indicò poi un piccolo pacchetto appoggiato sul suo tavolo da lavoro. “Questo è per te… hai bisogno di protezione’. Eugenia affermò come se annunciasse una verità sacrosanta. ‘Cara nipote’, continuò ‘io non riesco ad esprimere bene il mio affetto. Vengo da una famiglia di militari. Ma questo ti proteggerà…”. Dalla carta velina bianca uscii un grande quadrato di pizzo antico, color avorio. ‘‘Il velo della mia prima comunione. Era della mia nonna inglese.’ Eugenia disse sottovoce. ‘Tienilo come ricordo di questa vecchia zia’’. Quel velo era l’unica cosa preziosa che le era rimasta. Lo presi commossa e lo avvolsi nuovamente nella sua carta. ‘’E poi prenditi tutte le collane di eucalipto che vuoi’, disse, puntando col dito ad alcune collane appese da un gancio alla parete. ‘Ne ho fatte a centinaia per regalare a tutti quelli che vengono a Cisnes a trovarmi. Sono i miei gioielli. Anche queste ti proteggeranno’. * * * Con il ritorno della democrazia nel dicembre seguente, e poi l’elezioni, Eugenia stessa mi informò che aveva perso per pochi voti e che, dopo quasi trentanni di servizio, doveva lasciare adesso la guida del comune ad un giovane di nome Ortuzar.. Nonostante questo, con la sua imponente statura e ancora più imponente volontà, rimase per qualche tempo la forza trainante di tutta la regione e dei diecimila abitanti sparsi nei remoti villagi collegati a Cisnes solo via mare. Ma dopo due anni le sue condizioni di salute la tradirono. E così la mia zia temeraria rimase immobilizzata, senza più poter camminare. Malata, non si dava pace e continuava a pensare alla creazione di un centro internazionale per la salvaguardia dell’ambiente e per lo studio della fauna e flora marina a cui aveva dato il nome di ‘‘Patagonia 2000’’. Si stava preparando a lasciare la vita terrena, pensando alle generazioni future. Già da tempo, infatti, aveva intuito che il nuovo millennio avrebbe obbligato l’uomo a prendere coscienza della natura nel senso più vasto del suo significato. Eugenia sapeva che solo così, l’umanità poteva guardare all’indomani con più serenità ‘Gli antichi cinesi sostenevano che durante la vita l’essere umano deve avere almeno un figlio, piantare almeno un albero e scrivere un libro. Ho adempito alle prime due esigenze: ho messo al mondo non uno ma due figli, e ho piantato centinaia di alberi. E spero di avere il tempo prima di morire di scrivere un libro’…. Eugenia Pirzio Biroli de Godoy Eugenia scrisse tanti articoli e centinaia di lettere indirizzate al mondo intero. Invece del libro, scrisse l’epitaffio da incidere sulla sua tomba: ‘Qui giace il suo corpo, ma il suo spirito seguirà a vigilare nel cielo di Cisnes’. Morì a 96 anni lasciandoci queste parole che suonano di terra e di tutti gli spazi che ci sovrastano nell’universo. *Figlia della Pioggia è il titolo di una poesia purtroppo andata persa, che Moravia scrisse per Eugenia quando erano compagni di classe al liceo Torquato Tasso di Roma. Il destino poi portò Eugenia a stabilirsi in un luogo dove cadono circa tre metri di pioggia all’anno.
Se invece sei indifferente, vieni più rapidamente
Perché di fronte alla sua bellezza,
Comincerai ad amare il mondo.
Qui in Patagonia, mare, fiumi e montagne sono tuoi
E di notte potrai sempre alzare gli occhi al cielo e
contemplare la Croce del Sud… *