Timor Est non è dietro l’angolo, ma al limite quasi dell’immaginario, tra l’estremo punto nord dell’Australia e l’estremo punto orientale dell’Indonesia. Ma nessuno sembra sentire il peso del lungo viaggio. Invece sveglissimi, ci mettiamo tutti pazientemente in fila, uno dietro l’altro, il passaporto in mano, e aspettando il turno ci scambiamo segni di amicizia. D’altra parte siamo tutti qui per la stessa ragione. Tra poche ore, esattamente allo scoccare di mezzanotte, Timor Est diventerà la prima nuova nazione del secondo millennio. E un avvenimento sorprendente in questo momento così violento della nostra corsa Darwiniana verso un destino incerto. E noi siamo qui proprio per questo, per celebrare finalmente un miracolo storico, il trionfo della pace e della giustizia. Un momento storico lo fu anche poco più di due anni fa, quando arrivai a questo stesso aereoporto su di un areo militare ONU, come parte della missione UNAMET, per proseguire subito in elicottero alla volta di Same nel distretto di Manufahi, una regione di montagna dai panorami limpidi a perdita d’occhio, famosa per le coltivazioni del prelibato caffè arabico. Il mio compito era quello d’istruire una parte della popolazione al sistema democratico del voto e poi di trasformare in seggi elettorali le aule dell’unica scuola -riservata per lo più ai figli dei militari indonesiani di quella regione. Assistita da giovani assunti per l’occasione, realizzai subito che non mi trovavo di fronte a gente comune. La vita di ognuno era appesa ad un filo solo perche mi stava aiutando nei preparativi per il referendum pro indipendenza dall’Indonesia o contro. Nessuno dormiva la notte a casa, per quanto modesta o misera che fosse. Conoscevano bene le abitudini delle milizie – squadre di killers mercenarie formate per lo più da compatrioti addestrati dai militari indonesiani al fine di sbarazzarsi della popolazione e sostituirla con quella indonesiana per completare il sogno di un’Indonesia ancora più grande e ancora più ricca. Tutti poi sapevano che un milione di rupie – pari a 100 euro – era il premio per ogni corpo ucciso – oltre ai sacchi di riso distribuiti giornalmente alla famiglia di ogni membro della milizia come ricompensa fissa. Anche i più analfabeti sapevano che la famiglia del Presidente Soeharto amministrava le risorse del paese–caffè, marmo, legno di tek o di sandalo, ma sopratutto il futuro degli immensi giacimenti petroliferi in fondo al mare – come se queste fossero una loro proprietà personale.Le milizie non erano altro che la loro armata privata per proteggere questo gigantesco bottino. E quest’armata obbediva alle famose forze speciali Kopassus comandate dal pugno di ferro del Generale Prabowo Subianto, genero di Soeharto. Il genocidio, così ben organizzato, era cominciato ufficialmente il 7 dicembre 1975. Il Portogallo aveva da poco abbandonato a sé stessa la sua colonia di Timor Leste dopo 470 anni di dominio. Il paese era stato messo da parte come un orfano alla mercé delle intemperie, indipendente ma malato di povertà’ e senza difesa alcuna. L’Indonesia non perse tempo. I suoi militari arrivarono a Dili dal mare proprio la mattina del 7 – undici giorni esatti dopo la cerimonia d’indipendenza e la nomina di Nicola Lobato a primo ministro. L’indomani, 8 dicembre, giorno dell’Immacolata, radunarono a forza sul molo 80 persone, uomini, donne e bambini – tra cui anche la moglie del primo ministro – e fucilarono tutti, buttando poi i loro corpi a mare. In mare finì anche l’australiano Roger East, unico giornalista straniero presente. Lo presero, gli legarono le mani dietro la schiena e gli tirarono alla testa di spalle. Aveva filmato, è vero, la tragica esecuzione di tanti innocenti. L’aggressione fu appoggiata in pieno dal Presidente Gerald Ford e dal suo segretario di stato Henry Kissinger che per l’appunto si trovavavano a Giacarta, in stretto colloquio, con Soeharto proprio la sera della vigilia del massacro. Ma gli scheletri sepolti da anni negli archivi di stato americano sono recentemente usciti alla luce del sole e la verità è alla portata di tutti. Ed è anche per questo (ma non solo) – cioè per proteggere la vecchiaia di questi personaggi illustri nella storia della politica estera Americana – che il governo Bush rifiuta categoricamente la partecipazione degli USA al tribunale internazionale dei crimini contro l’umanità. Durante gli anni di occupazione indonesiana, persero la vita 200.000 – e cioè un terzo della popolazione. Il paese sparì dietro ad una barriera di persecuzione sistematica. Se uno straniero riusciva per caso a penetrare al di là di quel muro del pianto, lo faceva a suo rischio e pericolo. Eppure alcune immagini dell’assedio di quel popolo raggiunsero sponde lontane e molti persero la vita nel portarle alla conoscenza del mondo. Nell’agosto del 99, le squadre di killers dunque imperversavano con i loro machete non solo a Same ma in ogni distretto del paese. Erano come bestie affamate alla ricerca della preda. I miei colleghi – alcuni giovani sposi o genitori con figli piccolo – alla fine della giornata di lavoro sparivano in alta montagna, al riparo dai loro fratelli diventati mercenari al servizio dell’Indonesia. Nella mischia assassina, c’erano sempre anche militari indonesiani, gli stessi che si erano resi garanti con l’ONU di mantenere la sicurezza. Per lanciarsi indisturbati nelle escursioni notturne, si mettevano in borghese e si mimetizzavano alle milizie, coprendosi il volto come i banditi del Far West. I miei amici ricomparivano puntuali ogni mattina, ma solo dopo essersi inginocchiati davanti al grande crocifisso di legno che dominava l’altare della chiesa di Same vicino alla scuola. Per la prima volta capii il ruolo del crocifisso nella vita di una comunità in lutto e sofferenza perpetui. Vi era infatti un’identificazione totale con quel corpo appeso alla croce. Si sentivano uniti a lui dalla stessa realtà. Forse l’immagine fondamentale dell’iconografia cristiana era nata proprio da una persecuzione molto simile a quella che i timoresi stavano vivendo. Lavoravano, questi giovani, silenziosamente coscienti del pericolo che li circondava. Sembravano già pronti a morire pur di poter votare per la prima volta nella storia. “Per noi il voto è una questione così importante da trascendere le nostre vite. Un gesto da uomo e donna liberi” aveva detto calmamente Xanana Gusmao, anima della resistenza timorese, dalla prigione di Cipinang a Jakarta. Dopo oltre quattro secoli di colonizzazione portoghese e ventiquattro anni di occupazione indonesiana, il momento chiave della storia di Timor Est era arrivato nella data del 30 agosto, giorno del referendum. Dal taxi che mi porta adesso in città, le rovine degli edifici bruciati si susseguono, mettendo in evidenza quelli nuovi con le facciate fresche di pittura e le tegole rosse appena posate sul tetto. Dili è avvolta in un grande e frenetico ultimo ritocco nel tentativo di cammuffare la distruzione e vestirsi a festa per celebrare la propria indipendenza. Dili è la città “ground zero” dell’Asia. Ma ora, al posto delle ceneri e terrore, una gioia serena è percepibile in ogni volto di adulto e bambino. Al largo della baia, lo stesso orizzonte che fino a pochi mesi fa era il confine di una prigione senza speranza, adesso allarga lo spirito fino ad abbracciare l’universo. In borsa, porto con me l’album con le fotografie degli amici di Same. Quante volte ho pensato a loro negli ultimi due anni: Paulina Tilman dai grandi occhi a mandorla proprio come il suo bambino di tre mesi; Teresa da Costa che, alla partenza, mi regalò tre chili di caffè tostato al sole, l’ultimo prodotto del suo piccolo giardino prima che fosse distrutto dalle milizie in fuga; Julieia Maria de Fatima; Angelino de Jesus, nato per fare la guardia del corpo; Leonia da Cruz; Diamtinho Pereira; Estella Prego corteggiata da tutti; Lucilia Saixos; le gemelle Maria Romenia e Rosantina de Jesus; Mario e Rosa Boaventura che mi ospitavano; e Domingos Verdial, un formidabile giovane di 23 anni, cresciuto senza genitori, già padre di tre bambini, un vero cavaliere della tavola rotonda. Sono venuta a Timor Est–non solo per respirare aria d’indipendenza – ma nella speranza di ritrovarli. Il ricordo delle loro figure farsi sempre più piccole a misura che l’elicottero ONU si alzava nel cielo è sempre presente. Desidero adesso sapere se sono sopravissuti alla morte, alla deportazione forzata, all’incendio delle case, alla distruzione completa dei campi, degli animali e utensili da lavoro, e di tutti i certificati di proprietà della terra. Questo viaggio è in fondo un pellegrinaggio alle sorgenti della speranza, una riflessione sul potere della forza interiore e la tenacia della fede nella giustizia. Xanana Gusmao, primo presidente di Timor Est, non ha potuto ritirarsi in campagna nel settembre del 99 e fare il contadino come sperava, dopo sette anni di prigione a Jakarta. Il suo paese l’ha accolto in un abbraccio tenerissimo e senza via d’uscita come se egli fosse un’ancora luminosa e l’unico faro di guida per il futuro. La popolazione l’ha obbligato a candidarsi alla presidenza. E lui non ha potuto dire no. Ma in tutti i suoi discorsi alle folle gremite ad ascoltarlo, si è comportato all’opposto dai politici: ha cercato in tutti i modi di dissuadere la gente a votarlo, ripetendo che lui proprio non ci teneva a diventare presidente. Ed invece l’ 82 % dei timoresi l’hanno voluto e scelto. Questa è la prima volta che tocco con mano un processo democratico puro, incontaminato dal potere del danaro, dal marketing e pubblicità, dalle grandi bugie, dalla promozione dell’ignoranza, dalla mancanza di rispetto umano, dai giochi di parte, dalla clamorosa apatia del cittadino, tutte realtà queste che da noi sono al’ordine del giorno. Non sapevo che potesse esistere. Eppure anche qui vi erano due candidati alla presidenza e ben sedici partiti politici, ognuno dei quali faceva campagna per il parlamento. Gusmao, già da un anno aveva dato le dimissioni dal movimento di liberazione del quale sempre aveva fatto parte essenziale. Solo da indipendente, giustamente, era in grado di ascoltare tutti e parlare al di là della politica. Il paese ha accolto a braccia aperte anche José Ramos-Horta, l’intrepido compagno di ventura di Gusmao, quando è tornato nella sua terra dopo 24 anni di assenza. Ministro degli esteri cinque stelle, instancabile portavoce del suo popolo, egli continua da sempre ad avere lo sguardo aperto sul mondo. Come Xanana, anche lui è uomo di grande cultura e umanità. Non per niente nel 1996 ha ricevuto il premio Nobel della pace. In effetti, come sta scritto in uno dei comunicati stampa, questo piccolo Timor Est – grande come il Belgio – ha il maggior numero di Nobel della pace per capita di qualsiasi altro posto al mondo: lui e Carlo Ximenes Belo, vescovo di Dili. Nel cortile di un nuovo albergo, Gusmao risponde adesso alle domande dei giornalisti venuti da tutto il mondo. Ines de Almeida, la sua assistente, mi fa notare che sono l’unica italiana presente e la cosa un po’ m’imbarazza. Perché mai nemmeno la RAI ha mandato qualcuno? Eppure l’Italia è nel cuore di tutti i timoresi che sognano un giorno di vedere Roma con i propri occhi e pregare davanti alla Pietà di Michelangelo. Eppure il 25 settembre del 99, quando le milizie misero a ferro e fuoco Lospalos, una suora italiana Erminia Cazzaniga morì tra le fiamme nel tentativo di portare in salvo dei bambini. Eppure un personaggio molto amato è l’instancabile italiano Padre Luigi Locatelli che, dalla sua base di Baucau, da buon alchimista spirituale, trasforma da anni l’orrore in speranza. E ancora sarà un italiano a dire la messa il giorno dell’indipendenza per una una folla di 200.000 persone: l’inviato del papa, Arcivescovo Renato Martino–davanti a Kofi Annan, il Presidente australiano John Howard, Bill Clinton, e numerosi ministri degli esteri e ambasciatori venuti da tutti gli angoli del pianeta – benedirà la bandiera di Timor Est che per la prima volta sventolerà i suoi colori – nero, giallo, bianco e rosso – nel cielo stellato di questa nuova nazione. Ma di tutto questo – del trionfo dei diritti fondamentali dell’uomo in questa epoca di violenza e divisione tra popoli – forse all’Italia importa fino ad un certo punto. “Dobbiamo fare di tutto per eliminare ogni sentimento di odio e di vendetta. Abbiamo combattuto non per il potere, ma per l’indipendenza”, dice Gusmao con fermezza. “Timor Est è il paese piu povero paese dell’Asia. Dobbiamo partire da zero e costruire, sradicare la povertà in tutti i sensi della parola. Per fare questo dobbiamo, inanzitutto, stendere la mano a quei nostri fratelli che stanno tornano a casa con le mani sporche del nostro sangue. Dobbiamo assolutamente riuscire a far questo. Sennò non ci può essere futuro. Il 50% della popolazione è minorenne. Poi ci sono i vecchi. Ma quelli come me dell’età di mezzo contano solo il 5%. Sono tutti morti. I giovani devono imparare ad amare la pace. Armonia e tolleranza, queste sono le parole che contano. Non abbiamo altra via che quella di accogliere i nostri fratelli prodighi ed aiutarli a chinare il capo davanti alle vedove e agli orfani per chiedere scusa. Questa è la prima fase della loro purificazione. Poi devono sottoporsi al processo giuridico e scontare la pena a seconda dei crimini commessi per poi poter rientrare nella società come persone nuove. Nel frattempo dobbiamo anche aiutare le famiglie più colpite a ritrovare la propria dignità”. Mentre Xanana parla, non posso fare a meno di pensare a suo padre ucciso nel caos del 99; ai suoi fratelli e sorelle sepolti da giovani–quanti di preciso non lo so; e poi alla sua prima moglie Amalia, madre dei suoi due figli – violentata a più riprese dai comandanti indonesiani per rompere la fibra del marito e farlo scendere dalle montagne della resistenza -Amalia che di sua propria volontà ha preferito mettersi totalmente in disparte e divorziare per non macchiare di vergogna la nobile figura del marito e renderla soggetta a derisione. “Forse sono un sognatore,” continua Gusmao, “ma dobbiamo abbandonare qualsiasi sentimento di vendetta” ripete con una voce calda come il sole che ci illumina. “Abbiamo tanto lottato per certi ideali che ora dobbiamo mettercela tutta per dare impeto ad una mentalità basata sulla pace e non-violenza. Bisogna contribuire alla nascita di un mondo più civile”. Rimango impressionata ma perplessa. Tra una decina di giorni, nel penitenziario di Huntsville nel Texas, con un’inizione letale lo stato americano metterà fine alla vita di Napoleon Beazley. Dall’inizio dell’anno sono già 39 le persone che lo stato del Texas ha giustiziato. Ma Beazley è un caso limite: era minorenne quando uccise un uomo bianco. Ma nello stato del Presidente Bush non c’e differenza nel trattamento dei minorenni. In questo momento, ci sono 400 persone che attendono il loro turno nella cella della morte. Hunstville è una cittadina la cui economia fiorente gira tutta intorno alla certezza che la pena di morte sia l’unica forma di giustizia per chi si è macchiato del sangue altrui. L’ “occhio per occhio” del Vecchio Testamento è legge in Texas come ancora quasi in tutta l’America. “Pensate proprio che la vendetta, a lungo andare, sia meglio per la società?” La domanda di Gusmao non riceve risposta. Anche i più cinici tra i giornalisti sembrano attenti. Eppure tra di loro ve ne sono alcuni che ne hanno viste di tutti i colori, sempre in movimento tra un conflitto armato e l’altro, abituati come sono alla vendetta. Ma le parole di Gusmao, in quest’epoca di grande odio e diffidenza nel mondo, sono musica per le orecchie anche dei più sordi. Non si può che sentirsi previligiati di trovarci di fronte a questo crismatico portatore di pace e di sapere che egli – come Nelson Mandela – sia il presidente di una nazione. Ma le migliaia di vittime saranno veramente capaci di accogliere, nella vita di tutti i giorni, gli assassini dei propri cari, gli incendiari e saccheggiatori delle loro case, senza voler far giustizia da soli? A Same, alla ricerca di amici indimenticabili, dopo un viaggio attraverso alture e paesaggi immensi, metto come per miracolo le mie incertezze a riposo. La maggior parte di case esistono sottoforma di macerie. I pali della luce hanno ancora i fili strappati e a penzoloni. Ma l’ufficio dell’ONU ha il tetto nuovo. All’angolo, una piccola folla chiassosa di soli uomini è impegnata nella lotta dei galli. Il paese si prepara alla festa. In cima alla collina, l’ex ufficio della Telecom indonesiana, da dove riusci per caso a comunicare con mio padre a Firenze, è un cumulo di rovine bruciate. Same è tagliata fuori dal mondo ma il suo tradizionale telefono senza fili funziona ancora a meraviglia. Ritrovo ad uno ad uno tutti gli amici. Mi abbracciano increduli quasi come se io–e non loro–fossi andata dispersa nell’abisso della tragedia. Sono tutti in buona salute. Con gran serenità mi raccontano le storie agghiaccianti che seguirono l’esito del referendum, sempre a nascondersi e scappare dai camion del terrore pieni e zeppi di milizie che non lasciavano niente di vivo al loro passaggio. Ma non sento nessun tipo di rabbia o durezza di spirito nella loro voce. La casa di Domingos Verdial, quattro mura di legno messe insieme alla meglio, è stata risparmiata dalle fiamme, perchè immersa nella vegetazione. Ma uno dei suoi tre bambini, quello più piccolo, è morto dal freddo in montagna. Il formidabile Domingos, cavaliere della tavola rotonda, me lo annuncia a bassa voce come per non risvegliare il ricordo. Sua moglie, fragile come una statuina di porcellana, mi guarda in silenzio. Questa dei tanti bambini morti nel corso degli anni è una storia che conosco bene. Basta passeggiare tra le tombe variopinte e piene di fiori del grande cimitero della capital – il cimitero di Santa Cruz – per rendersi conto che una su due e la tomba di un bambino: Bernardino de Jesus, nato il 20 novembre 1985, morto il 6 giugno 1987; Zulmira Nunes, 25 maggio – 8 novembre 1992; Florindo Battista da Costa, 26 dicembre 1997 – 22 settembre 1999, e così via. Alla mia domanda se alcuni colpevoli di atrocità abbiano già fatto ritorno a Same e se la popolazione li aveva accolti, Domingos mi risponde calmamente di sì: “Siamo tutti stanchi della violenza. Adesso che possiamo finalmente dormire tranquilli, pensiamo solo a lavorare per dare ai nostri figli un futuro di pace.” Tutti i timoresi ai quali faccio la stessa domanda, hanno il cuore aperto al perdono come Domingos, e lo sguardo rivolto al futuro per quanto duro sia il cammino che l’aspetta. Fierissimi del presente, credono nel mistero della risurrezione, non per atto di fede, ma perche lo stanno toccando con mano. Per i bambini sopravissuti e per quelli che stanno nascendo, il futuro infatti sarà molto diverso. Questo Timor Est, oggi agli estremi della povertà, possiede un tesoro immenso di petrolio in fondo al proprio mare. Si stima che 7 miliardi di dollari entreranno via via nelle casse dello stato a partire dal 2005 per ventanni. Ma questa potenziale ricchezza materiale non è comparabile alla dimensione di ricchezza spirituale e senso di alta civiltà che il primo ministro Mari Alkatiri, Francisco Gutteres, capo del Parlamento, Ramos-Horta, ministro degli esteri Ramos-Horta, e tutto il governo con in testa Xanana Gusmao offrono al paese. “In quest’epoca di globalizzazione”, dice Gusmao nel suo discorso d’indipendenza alla nazione la notte del 20 maggio, “la tendenza è quella di creare uno standard uguale per tutti sul pianeta, nel modo di pensare, nelle attitudini e comportamenti. Per quanto ci riguarda, l’identità di ciascuno di noi, per forza di cose, non è chiara. Per questo, dobbiamo stare attenti a non cadere in una visione falsa del futuro e nelle avventure di facile consumismo economico e intellettuale – per non perdere la nostra anima finendo in una goccia nell’oceano. La nostra indipendenza non avrà nessun valore senza una vita veramente migliore, senza coltivare in noi stessi la forza di tolleranza come affermazione di democrazia, la riconciliazione come affermazione di unità in nome della giustizia e del rispetto dei diritti umani.”
So much has changed since August 30, 1999 when this defiled land voted for independence. Under towering Cablaki mountain, my wife Idanna and I served as UN electoral officers with East Timorese volunteers in the cool hill-town of Same, preparing polling stations for a nation-wide ballot–the long-awaited consultation on Indonesian rule. Dwarfed by cloud-shrouded peaks where the famed Timor coffee bushes thrive in shady mist, Same evoked images of Patagonia and Kashmir.
With humble, yet unmistakable Latin flair, these young men and women labored for what all knew would be an historic event. Before dawn on that fateful morning, thousands of souls lined up in murky darkness to vote for the first time in their lives. Across the province, ninety-eight percent of those registered cast their ballots that day. By early afternoon, we all knew the outcome. A landslide for independence. Gleeful smiles of euphoria swept the town. As night fell, gunfire crackled across encircling hills. Then, we heard the ominous news. All roads were blocked. Cut-off from the world, we huddled with our Timorese “family.” Just before the rampaging militia ran amok in an orgy of violence directed by the infamous Kopassos–US-trained, red-beret, Indonesian special forces–a UN helicopter swooped down on the soccer field to airlift us away. Torches set nearby homes ablaze. Our Timorese friends fled into the mountains. Others met long knives of vengeance. When the smoke finally lifted, only ruins remained. Of East Timor’s buildings, an estimated 80% were destroyed. A quarter of the population was herded across the border. The devastation was Biblical–scorched earth, rotting corpses, and slaughtered livestock. Indonesia’s leaders accused western media of distorting the story. In Dili, at the besieged UN compound, where thousands had sought refuge, UN staff led by Ian Martin refused orders to evacuate. The US Congress cut off military ties with Indonesia. Finally, relenting to international pressure, President Habibie declared the vote would stand. The Indonesian link was severed. Australian peace-keepers and British Gurkas landed on East Timor soil. Acting as surrogate parent, the United Nations mission slowly nursed the broken country back to life. One year passed, then another. We followed events from a distance. Late at night, the faces of those left behind haunted us. Did they survive? Was all lost? And their families? The pit of my stomach churned at the memory of faces covered in dust kicked up by our UN chopper blades, the town disappearing between the wisps of white clouds. Last week, we finally returned. Far from the ashes of the World Trade Center, East Timor’s capital Dili shares an eerie legacy with Manhattan. It is home to Asia’s Ground Zero. Along the whitewashed Mediterranean-style seafront, a battered city grows from burnt-out, charred ruins. Last Tuesday, on a balmy evening in independent Dili, World Bank director, James Wolfenson told a gathering of donors and politicians, “This was the most important day in my seven years as head of the bank.” He described an earlier meeting that afternoon when he listened to his local staff’s fledgling hopes and dreams. “At the end,” he confessed, “we all cried together.” Praising East Timor’s charismatic first President, Xanana Gusmao as a dear friend, he ended with an emotional cheer: “Viva Timor Leste!!!” The audience echoed his call. “Vi–vaaaa Timor Leste!!!” Why does this little nation move staid bankers so deeply? What is it about this partitioned island that makes its cause larger than life? Ex-President Bill Clinton, representing the US government at the Independence celebrations, summed up East Timor’s magnetic pull. “The world needs positive signposts amidst all the troubles to remind us that the right force can prevail when the US, with powerful nations, and the UN unite in an effort to do the right thing.” Indeed, this may prove to be Kofi Annan’s finest hour. For the first time in living memory, a serious peacekeeping force–Aussies and British Gurkas leading the way–actually kept the peace. Three of them lost their lives. But, in just over two years, the orphan child of East Timor was delivered into the family of nations. With security ensured, a sense of calm allowed UN agencies and countless NGOs to work and manage the chaos. Their acts of nation building began in earnest. A profound lesson is now confirmed. In today’s conflicts, warring factions must be disarmed first. There simply must be security. Thankfully, in the case of East Timor, almost all of the armed men–Indonesia’s military and their proxy militias–fled across the southern border once Australian troops finally landed. Equally significant, the UN’s rules of combat had radically changed by then. In his final speech before peace-keeping soldiers, departing Special Representative of the UN Secretary General, Sergio Vieira de Mello, bluntly sent a message of warning to the remaining pro-Indonesian militias in West Timor, “Just let them try to provoke again and, together with the army of Timor Leste, we will strike back with full force.” This aggressive stance is a dramatic departure from the timid UN blue-helmets of Bosnia. Neo-conservatives who dominate American foreign policy mock the UN’s task of nation-building and strenuously reject that the US ever consider such a role, especially in post-Taliban Afghanistan. The mere word–nation-building–provokes outcries on Capital Hill and sends shudders down Pentagon corridors, conjuring up visions of open-ended peace-keeping missions and misguided use of the US military abroad. “Passing missions off to the UN allows for convenient exit,” a State department official said, “When the mission fails, blame is easily deflected.” Before East Timor, the UN had built up a tragic list of failures. Interventions in Somalia, Bosnia and Rwanda reinforced an institutional memory of incompetence, a pattern of abandonment, a culture of impotence. From mass graves in Srebrenica to the deafening silence of Kigali’s killing fields, the betrayal of innocents haunted Kofi Annan’s East River headquarters in Manhattan. Robert Kaplan in Frontiers of Anarchy–his survey of 3rd world failed states–describes our post-cold war age as one of “localized mini-holocausts,” such as Sierra-Leone and Cambodia. East Timor fits squarely into this mix. Its population of 600,000 in 1975 was reduced by an estimated 200,000 following the Indonesian invasion which ranks East Timor as the highest genocide per capita in recent history. “To think that a global elite like the UN can engineer reality from above is just absurd,” Kaplan cautions, “people will either solve or alleviate their problems at the local level, or they won’t.” Not surprisingly, Timor Loro Sa’e–Rising Sun of Timor–has confounded skeptics and become the UN’s favorite poster child for nation-building. While some experts suggest it may be a rehabilitation model for failed states like Afghanistan, Somalia or Kosovo, others scoff at such comparisons. In East Timor, they point out, the UN’s mission of guiding the devastated territory was perhaps eased by the relatively small size of the country, the size of Connecticut–and a brave population of about 750,000 bonded by political unity. In contrast, the ethnic patchwork quilt of Afghanistan promises to be the “mother of missions”–in the words of author William Shawcross–with warlords like the Mazar al-Sharif’s Uzbek chieftain Dustom armed to the teeth and in control of key regions. Many analysts forecast a civil war, unless international troops are posted on the ground for the long-term. With independence, many questions are voiced along Dili’s seaside corniche. Will “nation-building” work? How can Timor Leste’s long-suffering people, still mourning their dead, accept reconciliation with the returning murderers? The answer lies with Xanana Gusmao, the dashing and adored president who relentlessly speaks of pardon, never of hate and revenge. Even though both his parents were killed in 1999, his obsession is not seeking justice, but rather the elimination of poverty. He offers national reconciliation, not retribution. “Fifty per cent of Timorese are below twenty years of age,” he says. “We have to teach the new generation to love peace and eradicate all sentiment of hatred and feeling of revenge. We can’t afford to dwell on the horrors of the past. We have to build a society where people reach out for each other.” Leading by example, Gusmao has traveled to the border to embrace ex-militia leaders– hired, trained and armed by Indonesia’s military to kill their brothers and sisters. He welcomes them back home. In this nation, exhausted with violence, each returning militia member must report to the police station and await trial. Once convicted, he serves his sentence while also offering an apology to the victim’s family. When we expressed our skepticism to our re-found friends in Same, we only heard talk of reconciliation. “We are the poorest country in Asia,” Gusmao never tires of point out. “We need schools, hospitals, housing, clean water, everything. We can build only if we accept each other. We must contribute to a new world.” At first glance, impoverished East Timor seems doomed to become a debtor-nation. But, oil and gas resources may well transform it into the “Kuwait of the Pacific.” Oil and gas revenues of $7 billion are guaranteed over 17 years from rich deposits under the Timor Sea. UN negotiator Peter Galbraith pressured hard-knuckle Australian oil men to revise their original 50-50 split of joint off-shore reserves negotiated with the Indonesian government. And he succeeded: the present 90-10 split heavily favors East Timor. In the newly restored Government Building, the Australian and Timor Leste Prime Ministers signed the oil agreement on Independence Day. But in Same, where we had served during the 1999 watershed vote, the Timor Sea riches seemed far away. Rosa, our former landlady, leads us up a hill to the grave of her two-year old child. “She died during our escape into the mountains. She died from the cold.” Turning her head, Rosa looks down at the shiny new tin roofs in the distance. “Now, at last, we’re free. Vivaaa!” Along Dili’s streets and in Same’s coffee groves, one senses that with Gusmao’s visionary leadership, this bold endeavor of nation building has already planted deep roots. Gazing from the docks of Dili out to sea on my last day, I am reminded of conflicts that still inflame the Indonesian provinces of Irian Jaya, the Moluccas, Kalimantan, and Aceh. There too, violence is one-sided, as it was once in East Timor. Unfortunately, the US military has played a role in training some of these provocateurs. Major Yacoub Sorosa a Javanese officer who trained at Fort Benning, Georgia and is now commander-in-chief in the famed resort island of Bali. He also directed the dreaded Batallion 745 that left behind a wake of corpses on its way out of East Timor, including the Financial Times Dutch journalist Sander Thoenes. While Pentagon officials are eager to re-embrace Jakarta’s generals after a two and a half-year hiatus, US Defense Secretary Rumsfeld should not underestimate their rogue activity, past and present.